Una “non storia” di montagna. A cavallo tra Trentino, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Una narrazione di terroir, identità e valori, dove la parola compromesso è bandita. Albino Armani si racconta.
Il nome di Albino Armani richiama a una delle storie più antiche del vino tricolore. Una narrazione che affonda le sue radici in oltre 400 anni di vigna e di passione per il vino da parte di una famiglia scesa dal Monte Baldo, in Trentino, e che, nel corso degli ultimi sette decenni, ha saputo portare la propria filosofia produttiva prima in Veneto e, poi, in Friuli Venezia Giulia. Una girandola di territori, dunque, ma dove mai è venuto meno lo spirito originale di una realtà che oggi è variegato mosaico di terroir vocati caratterizzati dal comune denominatore di una viticoltura di montagna (o di alta collina, in specifici casi) che chiama a grandi sforzi e non ammette compromessi. E così, ecco dipanarsi la tela di un progetto famigliare ambizioso, arrivato a contare cinque tenute di proprietà per un totale di 330 ettari di vigneto. Un cammino, su cui è lo stesso Albino Armani a condurci, svelando un po’ di sé e tanto dei valori che si possono ritrovare in ciascun singolo calice dei suoi vini.
Oggi, Albino Armani è sinonimo di territori e non più solo di Trentino: ma come si tiene insieme un mosaico di cinque tenute così variegato come il vostro?

Per me, non c’è mai stata dissonanza o difficoltà nella gestione di aree e contesti diversi tra loro, esattamente come quelli che compongono il mosaico delle nostre tenute. Questo, forse, è conseguenza anche di quella che è stata la nostra capacità di crescere progressivamente come realtà produttiva, senza strappi o accelerazioni. Uno sviluppo graduale, dunque, che ha favorito quella che è l’attuale gestione a misura d’uomo dell’azienda, anche a fronte dei 330 ettari di vigneto. È, in fondo, da 15 generazioni che la mia famiglia è impegnata in questo ambito: dal 1607, per la precisione. Per me, quindi, quello della viticoltura rappresenta da sempre un percorso naturale: fin da piccolo, infatti, mi sono stati insegnati i rudimenti del mestiere e ho vissuto quella che è la realtà della produzione vinicola, con le sue gioie e le sue fatiche.
Ma se parliamo della vostra realtà produttiva, a quando si ascrive lo step up, il momento che ha mutato i paradigmi?
La grande rivoluzione, forse, è ascrivibile al momento della discesa in Val d’Adige, a metà anni ’50, con mio padre. La nostra, occorre ricordarlo, è sempre stata una viticoltura legata all’ambito famigliare. E in questo siamo stati favoriti dalle nostre origini trentine e da usi e tradizioni della zona che hanno consentito di evitare, lungo il corso dei secoli, una progressiva atomizzazione delle proprietà terriere e dei vigneti. Così, quando si è passati da un’agricoltura di sussistenza a una vitivinicoltura di mercato, la nostra realtà produttiva era attrezzata al mutamento di paradigmi.
Com’è avvenuto il passaggio?

Il precursore è stato mio nonno Albino, cui si deve l’inizio della vendita del vino al di fuori del contesto di famiglia. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, poi, mio padre ha dato struttura al processo di trasformazione e commercializzazione del prodotto. L’approccio trentino alla vitivinicoltura, all’epoca, era quello di una produzione atta al consumo che era da intendersi all’interno di una più generale dinamica di alimentazione. Un elemento che personalmente non rinnego e da cui sono partito, successivamente, una volta iniziata la mia avventura di produttore. All’interno delle concezioni di un tempo rispetto al vino, infatti, è possibile ritrovare valori che rimangono validi anche oggi.
Ma come si esprime la vostra identità trentina oggi?
A prima vista, la nostra identità trentina sembra passi innanzitutto da quella che è un’atavica difficoltà nel comunicare la bellezza del lavoro che quotidianamente ci impegna e di un terroir realmente vocato alla coltivazione della vite. Anche se c’è da dire che, col passare del tempo, tutti noi produttori della zona abbiamo imparato ad aprirci un po’ di più al mondo e a raccontarci: è ancora difficile tirarci fuori le parole di bocca, ma stiamo migliorando (sorride, ndr). Il merito, non v’è dubbio, è anche dell’aiuto che arriva dalle nuove generazioni, come quella di mio figlio Federico, che ha iniziato ad affiancarmi in azienda. Non siamo più, possiamo tranquillamente affermarlo, nell’epoca del “fa e tasi” (“fai e taci”, ndr), come era uso un tempo dire. Oggi, infatti, siamo in una fase in cui il vino avverte la necessità di raccontarsi. Non è più soltanto un prodotto agricolo, ma molto di più. Coinvolge ambiti diversi e molteplici mondi. Un po’ come il mosaico di cui parlavamo all’inizio e che caratterizza proprio la nostra azienda: dove convivono cinque cantine diverse, ma unite da un filo rosso che congiunge ciascun elemento all’altro.
Qual è questo fil rouge che tiene insieme tutte le diverse anime di “Albino Armani Viticoltori dal 1607”?

Sono le caratteristiche del territorio e, soprattutto, la montagna ad accomunare ognuna delle realtà che fanno parte della nostra azienda. Parliamo di tutte zone dove ho ritrovato quello spirito di casa che mi ha permesso di trovarmi a mio agio anche in contesti nuovi e differenti (ma solo geograficamente) rispetto a quello in cui sono cresciuto. Sarei potuto andare altrove, rispetto a Veneto o Friuli Venezia Giulia, ma non avrebbe semplicemente fatto per me: dalla Sicilia alla Toscana, infatti, sarei stato inadatto a parlare il linguaggio del vino di quelle regioni. Dove oggi siamo presenti, invece, è diverso: fin dall’inizio, infatti, ho ritrovato una comunanza che mi ha consentito di sviluppare progetti “miei”, nel vero senso del termine.
Riavvolgiamo il nastro della storia: ci racconti come le diverse tenute si sono progressivamente integrate all’interno del percorso che prese il via nella Vallagarina trentina, precisamente il 7 dicembre 1607.
Casa è sempre stata il monte Baldo, nella Vallagarina trentina per l’appunto. Da lì, poi, a metà degli anni ’50 dello scorso secolo, mio padre scelse di scendere in Val d’Adige, passando il confine di Borghetto. Una decisione rivoluzionaria, come accennavo prima. Per chi abita nei nostri territori, infatti, la linea di demarcazione segnata dal comune di Borghetto ha sempre indicato il passaggio dal Trentino al Veneto. Voglio esser ancor più preciso: si pensi che all’interno di uno dei nostri vigneti è ancora presente un cippo su cui è segnalata la linea che un tempo separava l’Italia dall’Austria. Travalicare il “confine”, dunque, ha da sempre simboleggiato qualcosa di eccezionale. Ancor più se si parla di una famiglia contadina per cui, in precedenza, spostarsi anche di soli 10 km a Sud rappresentava letteralmente recarsi in un altro mondo. Ed è così che la discesa in Val d’Adige si è configurata come uno snodo decisivo: è il momento in cui abbiamo valicato i muri della nostra cultura di appartenenza. E quelli, sono stati anni di grande fermento famigliare e di tanti nuovi orizzonti che si sono schiusi.
In termini produttivi, cosa ha significato questo primo sconfinamento fuori regione?
Da un punto di vista vitivinicolo, ci ha permesso maggior agio e minor fatica rispetto alle tante difficoltà che caratterizzavano (e ancora caratterizzano) gli spazi angusti e le vendemmie eroiche di gran parte dei terroir vocati trentini.

E l’arrivo in Friuli Venezia Giulia, invece, quando è avvenuto?
È stato il passaggio successivo a quello della discesa a Sud. Ma è collegato alla passione che in prima persona ho sviluppato nel corso degli anni per la regione e le sue produzioni. E così, 25 anni fa, ci siamo infine mossi in direzione del comune di Sequals e della zona Nord delle Grave friulane, dove oggi presidiamo tre microzone altamente vocate. Solo dopo è arrivato il cavallo di ritorno della Valpolicella.
Come nasce il rapporto di Albino Armani con la Valpolicella?
La Valpolicella è un territorio che, in realtà, abbiamo presidiato come azienda con continuità e mai realmente abbandonato fin da dopo il nostro primo insediamento. Abbiamo semplicemente vissuto un’evoluzione, come famiglia, nel rapporto con questa zona di produzione.
In che senso?
Io mi sono concentrato sulla cultura dell’alta collina, più nello specifico sul territorio di Marano di Valpolicella. Mio padre, invece, in Valpolicella ci arrivò subito dopo essersi spostato in Val d’Adige. Nei primi anni ’60, infatti, per soddisfare la sua intraprendenza di produttore, aveva acquisito diverse proprietà nella zona. Da lì, poi, abbiamo vissuto insieme tutta l’epopea produttiva di un territorio che, fino ancora a poco più di 10 anni fa, non era quel che oggi è riconosciuto essere: la patria di un’eccellenza come l’Amarone.

Che Valpolicella era quella in cui arrivò suo padre e che Valpolicella è quella di Albino Armani?
Per dare i contorni di quello cui mi riferivo prima: all’epoca del nostro arrivo, nella zona, si parlava certo di viticoltura, ma altrettanto di frutticoltura. Oltre ai vigneti, infatti, noi come famiglia possedevamo anche diversi piantagioni di peschi e olivi: oggi, invece, lo scenario è radicalmente mutato. E anche il nostro presidio della Valpolicella è cambiato: abbiamo ceduto le proprietà di San Pietro in Cariano, con la sua viticoltura di pianura, e ci siamo concentrati sull’alta collina, attorno ai 400 m s.l.m., nei territori di Marano e di Fumane. È una filosofia differente, in pratica, quella che oggi perseguiamo con i nostri vini in Valpolicella rispetto al passato. E ci stiamo impegnando a fondo, anche sostenendo l’attività di ricerca scientifica e in collaborazione con le altre piccole cantine della zona, per definire i descrittori capaci di comunicare in che cosa si differenzino le produzioni di collina, a partire proprio dall’Amarone di Marano.
Parliamo del suo modo di far vino: cos’è che Albino Armani persegue con ogni etichetta che presenta al pubblico?
Quel che ci prefiggiamo nella realizzazione dei vini è la caratterizzazione territoriale. E siamo impietosi a riguardo. Non è, infatti, nelle nostre corde realizzare vini che non siano legati fortemente all’ambito territoriale. Si tratta di un elemento che, al contempo, può rappresentare un pro e un contro: tanti, infatti, ci apprezzano per questo tipo di scelte, ma in egual misura c’è anche il consumatore che ricerca meno caratterizzazione. Ma noi – che sia un Amarone di Marano, un Metodo Classico del Monte Baldo, un Friulano di Sequals – è la territorialità ciò che desideriamo esprimere. Arrivo a dire che, personalmente, se non avvertissi nel mio vino la specificità del territorio in cui nasce, sentirei di aver mancato nel mio impegno di produttore. Perché se un’area ha un valore, è quello che deve risaltare nel calice: con tutti i suoi pregi e – paradossalmente – anche con quelli che potrebbero esserne i difetti. E, in sintesi, è questo ciò che ci viene generalmente riconosciuto, e ne vado fiero.
A suo avviso, dunque, deve essere sempre il territorio a guidare, non la mano dell’enologo.
La riconoscibilità del territorio, a mio avviso, deve passare sopra anche l’ambizione dell’enologo. Chi mi accompagna, in cantina, è attrezzato sotto questo punto di vista. E mai, nelle nostre etichette, si ritroverà la mano dell’enologo sovrastare la caratterizzazione che la terra dona a ogni produzione. Fare vini standardizzati e piacevoli, in definitiva, sarebbe ben più semplice. Ma non è questo quello cui ambiamo. Il nostro traguardo ultimo è collocato ben più in là.
Dove esattamente?
Il nostro desiderio è di dar lustro e risalto ai “grandi territori” realizzando “grandi vini” che ne siano fedeli fotografie. Solo così, a mio avviso, i grandi punteggi arrivano ad assumere un reale valore e significato: perché sono il riconoscimento dei differenti elementi che contribuiscono a quello che, di fatto, è un successo collettivo. Ed è solo intraprendendo questa strada, poi, che si riesce a generare e far crescere un più corale orgoglio e senso di appartenenza a un territorio.

Il richiamo al territorio, oggi, procede sempre di pari passo con il fondamentale tema della sostenibilità: che significato assume per Albino Armani questo valore?
Sul tema della sostenibilità non posso che ritornare a quel principio cui facevo riferimento prima: la logica di un continuum naturale. Infatti, così come sono stato educato a vivere da produttore di vino fin da piccolo, lo stesso vale quando si parla di rispetto del territorio che ci circonda. Quel che ci è domandato quotidianamente è di stare al luogo (qualunque esso sia) in maniera coerente, avendo una visione di lunghissimo periodo. Personalmente, è una “non storia” che dura da più di 400 anni quella di cui mi è affidata, giorno dopo giorno, anno dopo anno, la responsabilità.

Cosa intende per “non storia”?
Sono le micro-narrazioni di piccole famiglie legate al nostro lavoro e al nostro territorio. E la profondità delle nostre radici è una naturale conseguenza di questa sostenibilità promossa fin dalle origini e di una visione di viticoltura capace di andare all’essenza dell’area in cui prende forma. Quando si parla di sostenibilità, non si deve guardare alla contingenza del momento, serve porsi il traguardo delle generazioni future. Immaginare quello che un territorio sarà tra un secolo o forse più. La sostenibilità, infatti, non è limitata al solo contesto ambientale: è anche economica e sociale. E questo è un concetto che si deve avvertire nel sangue e fin nella più intima profondità di sé, altrimenti scade in un agire pur giusto, ma che in definitiva è solo sterile marketing di facciata.
Parlando di impegno, la vostra, da diversi anni, è anche una storia di ricerca: ci racconta in che termini.
Da tanti anni lavoriamo con diverse fondazioni e università per quel che concerne la ricerca sui più disparati ambiti della vitivinicoltura. Tra i molti casi che ci vedono impegnati, cito per tutti quello della Conservatoria. Più di 30 anni fa, con diversi compagni di studio della mia gioventù, che nel frattempo erano diventati professori o ricercatori, abbiamo dato vita a un progetto di recupero delle varietà di viti autoctone in via d’estinzione in Vallagarina. E questa volontà di non andare a perdere un patrimonio di vigneti finiti nel dimenticatoio, oggi la posso presentare come un’iniziativa di cui vado particolarmente fiero e che ha dato ben più dei risultati promessi: forse non in termini strettamente commerciali ed economici, ma certamente per quel che riguarda la soddisfazione di lasciare a chi verrà dopo un capitale e un’eredità che sono valsi ogni singolo sforzo effettuato.

Parlando di grandi sforzi e altrettanto grandi ambizioni, ritorniamo per un istante alle tenute, così da concludere il nostro giro: qual è la storia del progetto Casa Belfi?
Quello di Casa Belfi è un progetto che ha preso il via circa 15 anni fa, insieme a Maurizio Donadi. In tempi non sospetti, dunque, quando di biodinamico parlavano ancora solo pochi irriducibili. Si tratta di un’iniziativa che ha preso forma in un contesto, quello di San Polo di Piave, nella Marca Trevigiana, dove il territorio non favorisce certo chi desidera dedicarsi all’agricoltura biodinamica. Essere riusciti a creare quest’oasi, all’interno di quella che è la più generale distesa di viticoltura industriale che la circonda, è motivo di grande orgoglio. Ma ci tengo a ribadire che il successo di questa operazione molto deve proprio alla testardaggine di Maurizio Donadi. E così, oggi il progetto Casa Belfi ha saputo imporsi anche a fronte di quella che è stata la rinuncia, qualche anno fa, della denominazione Prosecco per i nostri vini. Abbiamo abbandonato un importante elemento di traino da un punto di vista commerciale, ma caratterizzando ancor più l’idea che stavamo sviluppando attraverso la valorizzazione dell’uva Glera rifermentata secondo gli antichi metodi della tradizione: quelli che oggi cominciano a essere riscoperti da un numero sempre più grande di realtà produttrici, di ogni grado e genere.
Qual è, invece, la prossima grande sfida di Albino Armani?
La grande sfida oggi è quella di raccontare al meglio chi siamo, dando risalto alle diverse sfumature che compongono la nostra realtà e il nostro essere produttori. L’enoturismo, in particolare, vuole essere un nuovo percorso su cui intendiamo procedere per condividere i risultati delle nostre ricerche e valorizzare con ancor maggior forza l’importanza della sostenibilità, a ogni livello. È fondamentale comunicare che è un intero territorio a essere chiamato a presentarsi al mondo e compartecipare allo sforzo della sua crescita. E questo si esplicita con la necessità di compiere un passo in avanti rispetto a quanto già realizzato. Noi, per l’appunto, ci stiamo muovendo nella direzione del turismo sostenibile e della creazione di un circuito virtuoso. Il sogno è quello di far crescere un enoturismo più consapevole, che aiuti a far passare quei concetti e quegli elementi che poi si ritrovano in ogni vino che presentiamo al pubblico. È necessario, in sintesi, arrivare a toccare con mano e comprendere ogni fattore, andando oltre il pur giusto, ma in definitiva limitato, effetto “wow” della bellezza di un paesaggio vocato alla vite come quelli che anche noi presidiamo tra Veneto, Trentino e Friuli Venezia Giulia. È una rivoluzione. Ma siamo convinti della bontà di questa sfida. E, ora, siamo finalmente strutturati per affrontarla anche a livello imprenditoriale, con risorse dedicate e investimenti pensati ad hoc.