C’è un nuovo presidente degli Stati Uniti. Inevitabile, quindi, “lo stop temporaneo alla digital tax”. La notizia è stata diramata gli scorsi giorni. Con un’esaustiva nota di Unione Italiana Vini a chiarire i termini della vicenda, ma soprattutto a indicare il perché di quella che è ritenuta dall’associazione di categoria una “minaccia” per ora scongiurata. La partita, però, è tutt’altro che giunta al termine. Così, abbiamo voluto approfondire la questione, ragionando intorno al tema con Gilda Fugazza, presidente del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, imprenditrice, ma soprattutto dottore commercialista che da sempre presta una particolare attenzione al tema dell’innovazione e digitalizzazione nel mondo del vino.
I contorni della vicenda
“Lo stop da parte del nostro Consiglio dei ministri accoglie l’indicazione di Unione italiana Vini per un gesto di apertura nei confronti della nuova amministrazione Biden, affinché sia trovato già nei primi mesi del 2021 un accordo multilaterale su questa complessa materia. Non è un caso che proprio in questi giorni sia la Commissione europea sia l’Ocse abbiano pubblicato le loro nuove distinte proposte in tema di tassazione digitale”.
Così il segretario generale Uiv, Paolo Castelletti, ha commentato il rinvio del termine per i versamenti relativi all’imposta sui servizi digitali per il 2020, dal 16 febbraio al 16 marzo 2021, e della scadenza per la presentazione della relativa dichiarazione, slittata dal 31 marzo al 30 aprile 2021. Ma di cosa parliamo quando parliamo di digital tax?

Come spiega bene informazionefiscale.it, si tratta di nuova tassa sui servizi dell’economia digitale che s’ispira alla proposta di Direttiva Com (2018) 148 final. In attesa del debutto della web tax europea, l’Italia si dota così di una propria imposta sui servizi online. Soggetti passivi della digital tax sono gli esercenti attività d’impresa, anche non residenti, che nel corso dell’anno in cui sorge il presupposto impositivo hanno realizzato, ovunque nel mondo (singolarmente o a livello di gruppo) ricavi non inferiori a 750 milioni di euro, di cui almeno 5,5 milioni nel territorio dello Stato.
Digital tax: “sì” o “no”?

Secondo le previsioni, attraverso la tassa sui servizi digitali l’Italia dovrebbe arrivare a concretizzare un corrispettivo di circa 700 milioni di euro. C’è però un grande “ma” che, per il momento, ha condotto al temporaneo stop alla sua entrata in vigore.
Il report del Rappresentante per il Commercio Usa in tema, infatti, ha giudicato discriminatoria l’imposizione italiana nei confronti delle imprese americane, che rappresentano i due terzi delle aziende da tassare. Ad avviso di Unione Italiana Vini, tale impostazione sarebbe, di conseguenza, stata a forte rischio di azioni ritorsive, come quelle applicate (e poi sospese) ai danni della Francia, anch’essa promotrice della medesima imposta.
E per il vino tricolore, gli Stati Uniti non rappresentano una destinazione qualunque: gli Usa, infatti, valgono il 30% dell’export a valore di settore, pari a un importo di circa 1,7 miliardi di euro. I rischi di ritorsioni, di conseguenza, potrebbero portare a danni seri per il comparto. Ma è davvero sufficiente questo per fare dietrofront sulla nuova imposizione?

Regole giuste e tempo della pandemia: il pensiero di Gilda Fugazza
Le leggi corrono dunque sul filo del cambiamento digitale. E anche il settore vino, a riguardo, sta accelerando per forza. Tanto che il cambiamento è già realtà: quella dell’Agricoltura 4.0 (vedi il caso delle macchine agricole funzionali alla trasformazione tecnologica e digitale dei processi produttivi) che prende l’autostrada del web. Ed è così che digital tax si riferisce, ad esempio, alla piattaforma per la vendita di prodotti on line, a forme di pubblicità mirata, alla trasmissione della raccolta dei dati degli utenti che utilizzano l’interfaccia. È il mondo della vendita del vino che cambia. E servono regole giuste.
Gilda Fugazza Oltrepò Pavese
“Nell’introdurre la digital tax il legislatore ha cercato di diminuire il vantaggio competitivo che hanno le cosiddette internet company con sede all’estero, in particolari Stati, e che vendono sul territorio italiano”, spiega Gilda Fugazza.
“Facendo un esempio per tutti: una primaria società di distribuzione, che non ha sede in Italia – ma che vende i prodotti in Italia – e come tale non è soggetta all’imposizione sui redditi nel nostro Paese, rispetto ad altre realtà può dunque contare su un vantaggio competitivo e riesce a vendere i prodotti ad un prezzo inferiore”.
In quest’ottica, l’imposta sui ricavi derivanti da servizi digitali esprime soprattutto la volontà di tutelare i soggetti di distribuzione italiani che vendono prodotti nel nostro Paese.
Continua Gilda Fugazza:
“Se si pensa che l’imposta ammonta al 3% dei ricavi realizzati, solo se il soggetto a livello mondiale realizza almeno 750 milioni di euro e a livello di Stato 5,5 milioni, di per sé, questa legge, laddove applicata in modo corretto, non è sbagliata e devo dire anche non molto onerosa rispetto alle società che hanno sede in Italia. Tuttavia, non possiamo sottolineare la ‘bontà’ di un’imposta solo valutando le possibili ripercussioni che potranno avere altri Stati, nel caso gli Usa nei nostri confronti”.
Il tempo del vino, dell’innovazione del vino, si scontra però con il tempo della pandemia.

Proprio a riguardo, rispetto a quel che concerne l’attuale stand by nell’introduzione della digital tax, il presidente del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese conclude:
“Pur parlando di valori di mercato non confrontabili, in questo periodo di pandemia accogliamo tuttavia con favore questa sospensione temporanea, che permette ai nostri soci di evitare il rischio di dover rivedere le strategie di vendita sul mercato americano, così continuando a rafforzare il valore dei nostri vini e del nostro territorio”.